In un’epoca in cui la parola tradizione viene spesso tirata in ballo come alibi per resistere al cambiamento, c’è chi riesce nell’impresa, tutt’altro che scontata, di onorarla rompendo le regole. Con radici secolari sull’Altopiano di Asiago e una storia che attraversa otto generazioni, un’azienda vicentina è riuscita a trasformarsi da storico burrificio italiano in laboratorio di innovazione agroalimentare a livello globale. E lo ha fatto senza mai perdere di vista ciò che conta: la qualità delle materie prime, la sostenibilità reale e la spinta costante verso l’eccellenza.
Il punto di partenza è il burro – ma non uno qualunque. Il Superiore Fratelli Brazzale, fiore all’occhiello dell’azienda, è più di un ingrediente: è un manifesto culturale. Non nasce come derivato, ma come obiettivo ultimo della lavorazione del latte. Parliamo di una panna centrifugata subito dopo la mungitura, lasciata maturare per 12 ore e trasformata in burro entro il giorno successivo. Il risultato è un prodotto all’84% di materia grassa, spalmabile anche da freddo, profumato di latte fresco, con una texture setosa che ha conquistato forni e laboratori di alta pasticceria. È proprio con questo burro che sono stati realizzati alcuni dei panettoni più premiati d’Italia, grazie all’abilità di nomi come Sal De Riso, Giuseppe Mascolo e i fratelli Lo Faso.
Ma non è solo questione di palato. Dietro questo successo c’è anche un approccio scientifico. Il Brazzale Science Nutrition & Food Research Center, diretto dal professor Fernando Tateo dell’Università di Milano, collabora con maestri pasticceri per adattare tecniche e ricette all’evoluzione delle materie prime. Una sinergia tra industria e ricerca che raramente si vede con questa coerenza nel settore agroalimentare.
Se il burro rappresenta il cuore più artigianale dell’impresa, la mente è incarnata dal progetto Gran Moravia. Qui l’azienda ha scommesso su un’idea audace: spostare parte della produzione in Moravia, regione agricola della Repubblica Ceca, per dar vita a una filiera controllata, tracciabile e ecosostenibile, mantenendo intatti i valori della tradizione italiana. Il formaggio a lunga stagionatura nasce in un sistema dove ogni capo ha almeno quattro ettari di pascolo, non sono rilevate aflatossine, i nitrati sono ridotti al minimo e l’impatto ambientale è monitorato con rigore. Il risultato è un prodotto naturalmente privo di lattosio, carbon neutral, con un’impronta idrica tra le più basse al mondo: solo 72 litri di “blue water” per chilo di formaggio.
Un risultato reso possibile anche grazie all’integrazione di impianti agroforestali in Brasile, dove l’azienda ha piantato 1,5 milioni di alberi per compensare tutte le emissioni dei propri stabilimenti nel mondo. Il bilancio è chiaro: sostenibilità senza compromessi, ma anche senza alzare i prezzi al consumatore.
Il vertice tecnologico dell’intera filiera è rappresentato dal magazzino Sant’Agata, a Cogollo del Cengio. Otto mila metri quadrati, 200.000 forme in stagionatura, piena automazione: i robot antropomorfi caricano, rivoltano, spazzolano e controllano ogni forma con precisione millimetrica, il tutto alimentato da energia solare. Qui il formaggio si muove verso le macchine – e non il contrario. Grazie a questa architettura logistica, l’azienda ha potuto dismettere 15 depositi periferici, abbattendo consumi energetici, emissioni e costi di movimentazione.
L’aspetto più interessante? Nonostante la profonda digitalizzazione, il legame con il prodotto resta centrale. L’intervento umano non è annullato, ma indirizzato alle attività ad alto contenuto di intelligenza e sensibilità. Una visione che rovescia l’idea comune di industrializzazione: qui la tecnologia non standardizza, ma esalta.
In un settore spesso ingessato da dinamiche consortili e narrazioni statiche, questo approccio rappresenta un’anomalia virtuosa. Si parla tanto di filiera corta, ma qui si fa filiera efficiente; si parla di green marketing, ma qui si misura tutto, dall’acqua al carbonio. La coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa è forse il tratto più distintivo di questa realtà produttiva.
Certo, resta una posizione alta di gamma, e in alcuni casi il legame geografico con l’Italia è più emozionale che fisico. Ma per chi lavora nella ristorazione, nella distribuzione di qualità o nella food innovation, questo è un modello da osservare con attenzione.
Perché in fondo, la vera innovazione non sta nel fare qualcosa di nuovo a ogni costo, ma nel fare meglio ciò che altri danno per scontato. E questa azienda veneta, da otto generazioni, ci riesce con un equilibrio raro tra intelligenza produttiva, cultura materiale e visione industriale.
Lorenzo Palma
L’INTERVISTA