di Alberto Schieppati
Ma qualcuno si ricorda ancora della “customer satisfaction”? Sulla soddisfazione del cliente (al ristorante, in hotel o dovunque) si è letto di tutto, soprattutto negli anni Novanta. Poi, con il nuovo secolo e, via via, fino a oggi, il cliente in quanto tale ha progressivamente perso di importanza. Oggi, come mai, è diventato un pollo da spennare, il più delle volte totalmente a sproposito.
Quasi mai un soggetto da studiare, un essere umano da ascoltare, qualcuno da cui, talvolta, imparare qualcosa. È pur vero che il livello della società si è progressivamente abbassato: il numero di maleducati è in vorticoso aumento, come dimostrano le tante prenotazioni con successivo no show al ristorante, per non dire di altro…
I motivi per cui oggi si va al ristorante
Al ristorante “importante” ci si va per il brand, per lo story telling, per lo chef mediaticamete (e televisamente) ai vertici dell’attenzione.
Una volta si diceva: “per vedere e per farsi vedere”. Per carità, nulla da dire: è una regola di comportamento (e di mercato) nella società liquida. Ma quanti clienti di locali di fine dining (non amo usare il termine “stellato” che, come apericena, mi fa salire il sangue agli occhi) ricordano dei piatti che hanno mangiato? Uno su dieci, forse. Dunque, in certi ristoranti ci si va sempre meno per mangiare e godere, sempre più per un selfie con lo chef, o per fotografare un piatto da esibire sui social (l’abbiamo fatto tutti, non c’è nulla di male).
Ma la sensazione è che si stia irrimediabilmente perdendo il rapporto con il tavolo, con il cliente, con le sue impressioni (supposto che ancora ne abbiano da esprimere): il più delle volte, guardando i tavoli, si assiste al trionfo dell’ego, senza alcun interesse verso piatti che hanno comportato lavoro e, spesso, studi su materia e tecniche. Ormai si vive nel regno dell’approssimazione,dell’individualismo più sfrenato, della domanda e dell’offerta tout court.
Chiudere alle famiglie il sabato e la domenica?
Molti patron decidono di restare chiusi al pubblico il sabato e la domenica. Per consentire, dicono, “adeguato e doveroso riposo alle maestranze”. Scherziamo? Ma il ristorante dovrebbe “ristorare” e non abbassare le serrande nel giorno settimanale dedicato, tradizionalmente, alla convivialità, allo stare in famiglia, dello stare insieme. Concetto arcaico? Qualcuno me lo dimostri…Altri,riducono l’orario serale di apertura, “per mandare a casa i dipendenti che ne hanno pieno diritto”. Logiche incomprensibili, a mio parere. Ricordo con nostalgia i tempi in cui si amava far tardi al ristorante, per una chiacchiera, anche con il personale, in un rapporto quasi mitologico, mai dozzinale o mercantile. Ma umano, sì umano. Qualcuno pensava anche al cuore, oltre che al cassetto e al portafogli. Poi, certo, c’era chi, soprattutto fra la borghesia delle professioni delle grandi città, preferiva il modella trattoria a quello della (come la chiamavano allora) nouvelle cuisine.
Questione di risparmio, ma non solo.
Servizio impiallacciato, ritualità non capite, bisogno di sentirsi liberi. Giusto o sbagliato ma è così. Poi, con l’avvento dell’euro, tutto si è complicato e oggi, con la massiccia presenza di clientela internazionale, multisegmentata per reddito, assistiamo al prevalere di stranieri sugli italiani, costretti questi ultimi a fare i conti con redditi sempre più bassi (fatte le solite eccezioni).
Quale sarà la tendenza per i prossimi tempi?
Sicuramente si andrà verso un’offerta trasversale, di ristorazione “sincera”, ovvero autentica, ben fatta, ben proposta e ben servita. Senza dover fare un finanziamento per potervi accedere. Perciò auspico:
1) Stop alle cosiddette rivisitazioni, hanno stancato;
2) Ridimensionamento dei menù degustazione:
il cliente vuole sentirsi libero di scegliere non di vedersi imposti menù iperbolici;
3) Chiarezza dei piatti, nelle definizioni, nel gusto, nell’estetica delle presentazioni;
4) Approccio onesto e diretto verso il cliente, confortato da personale di sala che si presenti in modo adeguato, non come uno sprovveduto ma neppure come un “professorone del food & wine”, un tuttologo che ti mette paura e ti fa venir voglia di cambiare aria;
5) Basta con wine pairing che obbligano ad abbinamenti spesso astrusi e dettati da rapporti del sommelier con le cantine (sono sommelier anch’io, ad honorem, ma preferisco scegliere il vino dalla carta, e non vedermelo iimposto);
6) Non essere sudditi delle guide, si diventa ridicoli: il ristorante va apprezzato o criticato indipendentemente dal giudizio della critica, il più delle volte impreparata e spesso ignorante;
7) Basta esaltare il concetto di contaminazione, a favore del contenuto identitario di un piatto, di una materia,prima, di una ricetta;
8) Redigere menù più snelli, con piatti che non abbiano troppi ingredienti ma che aiutino a semplificare la scelta (al tavolo) e il lavoro (in cucina). Le elucubrazioni e la genialità hanno pure stancato, se imposte come un unicum al quale adeguarsi;
9) Non esagerare con la tipicità e la tradizione;
10) Non essere sudditi delle guide, si diventa ridicoli: il ristorante va apprezzato o criticato indipendentemente dal giudizio della critica, il più delle volte impreparata e spesso ignorante. Bisogna saperli fare, e bene, certi piatti: piuttosto che deludere, sarebbe meglio puntare su piatti collaudati, senza sentirsi troppo schiavi del territorio;
11) L’eccesso di territorialità va ridimensionato, particolarmente nel segmento trattorie. L’importante è che i piatti siamo buoni, memorabili, e venduti a prezzi in cui il mark up sia coerente e “umano”. Il pubblico è cambiato molto. Ha sempre meno bisogno di essere stupito, perlomeno il cliente di qualità.
A questi punti ne aggiungerò presto altri, che ritengo fondamentali. Ovviamente il dibattito è aperto…