Cucinare non è solo creare piatti. È entrare in relazione. Con i prodotti, con le idee, ma soprattutto con le persone.
Per Matias Perdomo, chef uruguaiano classe 1980, questo è sempre stato il cuore della sua cucina: un gesto di dialogo tra chi prepara e chi assaggia, tra chi offre e chi accoglie.
Dopo un inizio folgorante a Milano al Pont de Ferr (e una prima stella Michelin nel 2012), Perdomo ha saputo costruire in Italia un percorso unico, libero dai formalismi ma rigoroso nella ricerca. Nel 2015, insieme ai soci Simon Press e Thomas Piras, ha dato vita a una nuova avventura gastronomica aprendo le porte di un ristorante oggi tra i più riconosciuti della città. Ma il suo approccio non si è mai fermato lì.
Imprenditore creativo e sperimentatore instancabile, ha firmato progetti come Exit, Empanadas del Flaco e, da giugno 2025, ha rilanciato ROC – Rosticceria Origine Contraste, puntando su un delivery gourmet democratico, dove la qualità non è riservata a pochi. Un modo, anche questo, per rimanere vicino alle persone, incontrarle dove sono, senza rinunciare all’identità e all’invenzione, proponendo le ricette tipiche del paese di origine dello chef.

Nel frattempo, i dieci anni di attività del suo ristorante milanese diventano occasione per un calendario speciale di cene-evento, “Contraste/Contrario”: un gioco teatrale che celebra il cibo come esperienza sensoriale, collettiva, quasi narrativa. Un pretesto per ribadire che l’ospite è al centro, e che ogni cena è prima di tutto un incontro.
In questa intervista, Matias Perdomo ci racconta perché – anche in un fine dining – la relazione viene prima del tecnicismo. E perché ascoltare chi si siede a tavola resta il vero ingrediente segreto, quello che non si insegna ma si coltiva ogni giorno
1.Contraste sembra sfidare le convenzioni della ristorazione tradizionale, dove l’attenzione è spesso rivolta alla spettacolarizzazione dei piatti. Come riesci a mantenere l’autenticità e la profondità dell’esperienza culinaria, senza cadere nella tentazione di creare ‘piatti da Instagram’?
Per me ogni cliente che si siede al tavolo è unico, con gusti e preferenze che raccontano un’identità precisa. Il nostro compito è riconoscerla, rispettarla e, quando possibile, creare armonia. Anche i colori delle sale di Contraste sono pensati in questa direzione: nessun elemento deve disturbare, tutto deve accompagnare. Vogliamo che chi entra si senta a proprio agio, accolto senza filtri.
Questa è la base del mio stare in cucina: proporre qualcosa che incontri la tradizione, soprattutto la mia personale, ma che sia in continua evoluzione. L’obiettivo è offrire un’esperienza che rispecchi la nostra visione, senza mai dimenticare chi abbiamo davanti.
Per preservare l’autenticità dei piatti, credo in due parole chiave: coerenza e consapevolezza. Coerenza con ciò che siamo, e consapevolezza delle nostre origini. È fondamentale essere i primi “clienti” di noi stessi: metterci nei panni di chi siede a tavola ci aiuta a capire davvero cosa ci si aspetta da un ristorante.

Abbiamo aperto questo spazio per condividere un’idea, non solo per cucinare. Il fatto che il cliente scelga di venire da noi è già un grande risultato: significa che ha fatto il primo passo verso il nostro mondo. Da lì, inizia un percorso fatto di ascolto, squadra e cura, che non diamo mai per scontato.
2. La tua filosofia si basa su un dialogo continuo tra cucina, sala e cliente, puntando su contrasti e sorprese. In che modo riesci a bilanciare la componente emotiva e intellettuale della cucina, senza mai compromettere la qualità o il gusto?
