⌈Editoriale di Alberto Schieppati⌉
Al ristorante, di qualunque tipo esso sia, il vino sembra essere scomparso. È sempre più raro imbattersi in locali che vedano la bottiglia protagonista della tavola o, quantomeno, comprimaria. A pranzo, poi, lo si vede sempre meno. Ma che succede? A cosa si deve questa tendenza che, diciamolo, stona con i progressi qualitativi fatti dal mondo produttivo? oggi i vini italiani (ma non solo) sono un vertice indiscusso della capacità e del rigore produttivo di migliaia di imprenditori, che hanno in pochi decenni scalfito il primato dell’eccellenza vantato a lungo dai francesi. I consumi di vino pro capite sono in caduta libera da anni e i motivi sono solo in parte imputabili ai due “indiziati speciali” che ne sarebbero la causa, ovvero: i prezzi della bottiglia e la demonizzazione scientifico-istituzionale messa in atto dai poteri forti dalla fine del secolo scorso a oggi.
Non è questione di prezzo, ma di sentiment di comunità
Sui prezzi, però, viene da dire che i ricarichi elevati che la ristorazione applica al vino, fanno parte di un’abitudine adottata da tempo per recuperare costi fissi e gestionali che pesano non poco sull’attività. Ma, azzardo, visto che di vino se ne vende pochino, che senso ha insistere sul mark up elevato? Non avrebbe più senso ridimensionare i valori del ricarico e consentire prezzi più umani? Il vino va venduto, non inviato alla distillazione. Che poi, nelle carte dei vini di grandi ristoranti, siano presenti bottiglie superlative, di annate storiche, vendute a prezzi astronomici, nulla da obiettare. Sappiamo che esiste, nel mondo, un importante segmento di appassionati e di ambiziosi che cerca la grande bottiglia. Nulla da eccepire, non è questo il problema. I super ricchi ci sono è sempre ci saranno (sempre più). Ma un mercato come quello del vino non può pensare di risorgere solo con super etichette e super posizionamenti…
Per quanto riguarda invece gli aspetti salutistici, sarebbe ora di finirla con i j’accuse stupidi di certi medici e scienziati nei confronti di un prodotto che, alle giuste quantità, fa soltanto bene alla salute, fisica e mentale. Ci siamo tutti dimenticati del valore del resveratrolo e di quanto si predicava, giustamente, negli anni 90? O bastano due ubriachi (di vino? O piuttosto di spiriti e super alcool?) alla guida per demonizzare un intero comparto? Si facciano più controlli preventivi sulle strade e non si arrivi sempre quando ci scappa il morto!

Mancano gli aspetti conviviali del consumo
Dunque, aldilà di costi e prezzi elevati (ma la qualità fa la differenza e si paga, essendo un valore legato a lavoro in vigna, ricerche sui vitigni, affinamenti, conversione al biologico ecc oltre che a investimenti, energia, passione e quant’altro), crediamo che sia venuto meno nella società italiana (e non solo), l’aspetto della condivisione reale, concreta, di sentimenti e di emozioni. Viviamo in una sorta di autocompiacimento individualistico, che in alcun modo si trasmette agli altri in chiave emozionale. Come se ognuno fosse solo, col telecomando in mano, a individuare a quale canale di consumo dedicarsi, senza farsi minimamente influenzare da chi e cosa lo circonda, come fosse dentro a una gabbia.
Sono diventati tutti esperti (o pseudo tali), in una logica che esclude le possibilità di accedere a un piacere. La mancanza di questo aspetto “sociale” del vino ( ma anche culturale) ha portato a comportamenti autoreferenziali ed egocentrici in cui conta solo il “mio” vino e non il vino come prodotto della natura e dell’ingegno dell’uomo.
La visione “professorale” del vino aumenterà forse la visibilità mediatica di un prodotto, ne esalterà l’immagine sui social, aumenterà l’autostima di qualche produttore innamorato della tastiera, ma non ne accrescerà i consumi, ne siamo certi.

Ridare al vino l’innocenza che merita
L’impegno, oltre che sulla qualità, deve essere sempre più mirato sugli aspetti di convivalità dei consumi, di allontanamento dall’individualismo sfrenato, di reale comprensione del valore di un prodotto, si tratti di un semplice rosato o di un grande Bordeaux. Senza esagerare, senza esibire, senza allontanare/intimorire le persone normali, quelle di tutti i giorni, ma cercando anche di riavvicinare i giovani (sempre più inclini ai consumi di birra o spiriti) al consumo della bevanda nazione. Togliendo al vino quell’alone di inaccessibilità e riservatezza che gli fa soltanto male.
